Intervista all’artista Silvia Infranco

Silvia Infranco è una tanto delicata quanto potente giovane artista, che fa del tempo e della memoria i temi prediletti e degli elementi organici i materiali preferiti all’interno della sua produzione. Scambiamo con lei qualche parola per approfondire il suo percorso artistico e il suo lavoro.

 

Credits: Melissa Cecchini

 

SpeakART: Buongiorno Silvia, è un piacere averti qui con noi.
Parliamo un po’ di te: come sei passata da una laurea in Giurisprudenza all’essere un’artista a tempo pieno? La tua innegabile necessità creativa si è sempre espressa o è esplosa improvvisamente?
Silvia Infranco:  Direi che la necessità creativa si è sempre espressa, ma nel corso degli anni ha rafforzato la sua voce e le sue risonanze dentro di me. Mi piace pensare che ognuno di noi abbia un humus interiore che accoglie e fa germogliare in maniera differente vocazioni, necessità, percezioni esterne. Forse una delle scommesse più importanti che possiamo fare con noi stessi è avere il coraggio e la costanza di coltivare il seme che percepiamo a noi più affine. Il resto penso venga prima o poi da sé.
Alle volte nella vita, rispetto al proprio sentire più vero, si possono intraprendere percorsi più o meno lineari, ma alla fine ogni passo, anche sbagliato, penso possa restituire qualcosa: un significato, un insegnamento, un avvertimento, come può essere la consapevolezza della necessità di cambiare rotta.

SpeakART: Da dove trai l’ispirazione delle tue opere, qual è il processo che porta alla loro creazione?
Silvia Infranco: A volte gli spunti derivano da letture, soprattutto testi classici di botanica e filosofia, a volte dall’osservazione diretta della natura. Partendo da questi elementi si creano spesso dei piccoli archivi personali di disegni, fotografie, oggetti raccolti durante delle passeggiate o trovati qua e là.
E poi entra in gioco la sperimentazione in studio che considero essa stessa un importante spunto di ricerca, essendo in me forte il bisogno di entrare in contatto con il “fare” artistico che spesso, nel mio lavoro, si traduce nella reiterazione di un processo.
Ad esempio nel ciclo dei Tracciati, in cui l’attenzione ricade sul processo di macerazione, la carta viene piegata su sé stessa più e più volte. Successivamente iniziano i bagni. La carta viene immersa in una vasca in cui disciolgo terre, ossidi, pigmenti e viene monitorato il tempo di immersione. Una volta che la carta viene estratta dall’acqua, inizia una fase delicata, ovvero quella dell’apertura a ritroso delle piegature e della susseguente asciugatura. Prima del successivo bagno, la carta aperta viene stirata, se necessario “curata” attraverso minimi rattoppi, e quindi il processo sopra descritto si ripete più e più volte fino a quando la superficie esige l’arresto del processo di macerazione e l’ultimo trattamento curativo, tramite rattoppo e stesura di una crema cerosa preservativa.
Nelle cere invece la reiterazione del processo genera accumulo. In queste opere parto da una base di legno sulla quale viene stesa a pennello la cera fusa, cera neutra o nella quale vengono disciolti ossidi o pigmenti. Interviene quindi la stiratura della superficie e, ad avvenuta risolidificazione, la cera, come una matrice, viene incisa, ricoperta da bitume e poi scaricata dell’eccesso. A questo punto, prende avvio la reiterazione processuale tramite velature di cera le quali, proprio attraverso la traslucenza di questa sostanza, consentono all’occhio di percepire le svariate sovrapposizioni segniche e i differenti livelli di profondità delle stesse.

SpeakART: E quali sono le tematiche che maggiormente affronti attraverso il tuo lavoro?
Silvia Infranco: Le tematiche che fondamentalmente affronto nel mio lavoro sono quelle connesse ai concetti di memoria e decorso temporale. Trovo particolarmente interessante osservare come superfici differenti rispondano visivamente e tattilmente all’accadimento mnemonico, nella sua accezione di sedimento indotto dal processo di intervento.
I materiali con i quali mi confronto vengono sottoposti a processi di accumulo o di erosione e gli esiti che ne derivano svelano differenti tentativi di preservazione e di resilienza della materia che restituiscono allo sguardo e al tatto molteplici narrazioni segniche.
E’ un po’ come se il decorso temporale, il cui esito naturale rispetto alle forme organiche è quello della morte, continuasse nel suo incedere ad arricchire di vita la superficie che investe. La materia non si spegne, muta, preserva, si spoglia di peso, ancora brulica e resiste all’oblio.

 

Silvia Infranco, Melia, 2020, pigments, oxides, bitumen
Credits: Silvia Longhi

 

SpeakART: Da cosa deriva la predilezione per l’utilizzo di materiali organici, in particolare cera e acqua?
Silvia Infranco: La cera è stata da sempre, nel corso della storia, utilizzata dall’uomo per gli usi più svariati: nella medicina, nella scienza, più in generale negli usi comuni e quotidiani, nell’arte.
E’ una sostanza organica con innumerevoli proprietà fisiche che hanno fortemente contribuito a sviluppare attorno alla stessa una variegata ed interessante dimensione simbolica. Una dimensione che è terreno fertile per una serie di riflessioni sul legame tra uomo e natura, sull’organicità della materia in rapporto all’energia vitale, sul decorso temporale, sul passaggio tra vita e morte, sulla dimensione mistica e spirituale.
L’uso della cera, nel mio lavoro, assume particolare importanza in ragione dei significati connessi al concetto di memoria, di affettività primaria e tattile, di conservazione e di impressione.
Una derivazione etimologica del termine cera rinvia alla parola greca κάρα, ovvero testa, volto, mentre in latino il termine caro significa carne. In numerosi detti popolari la parola cera viene utilizzata per rappresentare lo stato psicofisico di un individuo desunto dal volto e ciò proprio in ragione della composizione della sua sostanza impressionabile e di memoria.
Lo stato di salute, l’emotività impressionano la cera dell’individuo, lasciano sulla stessa memorie di
accadimenti che attraverso il volto traspaiono all’esterno in forma fedele e veritiera. La cera sembra farsi veicolo di restituzione di interiorità al mondo attraverso impressione di memorie interne che vuoi il corpo, vuoi la psiche imprimono sulla stessa.
Ma l’organicità di questa sostanza mi interessa anche in quanto può essere associata al seme vitale insito nei corpi animali e vegetali. Penso alla nascita della cera come secrezione ghiandolare animale che, allo stato originario, si presenta sotto forma di liquido vischioso che solidifica a contatto dell’aria. Allo stato primo, la cera è fluido amniotico, origine vitale che feconda e plasma la materia umana o animale che sia.
Un altro aspetto che cerco di indagare nei miei lavori è la capacità conservativa e di sospensione sottesa a questa sostanza. Il richiamo va alle varie pratiche di inclusione organica in paraffina a scopi conservativi o alle piante che trasudano sostanze cerose per proteggersi, isolandosi, dagli agenti esterni o ancora ai processi di mummificazione egizi in cui venivano utilizzate fasce impregnate di cera per avvolgere i cadaveri.
Simbolicamente, in questa prospettiva, la cera consente di travalicare il tempo in quanto sembra arrestare il suo decorso. Quindi la stessa può costituire, nell’elaborazione emotiva umana, un elemento di raffigurazione ideale del passaggio tra la vita e la morte, in quanto, esorcizza la caducità organica della materia e illusoriamente preserva la vita.
Anche l’acqua che nel mio lavoro interviene, soprattutto, nel processo di macerazione delle carte, assume il significato di elemento connesso alla vita, alla rinascita e alla morte. L’acqua risana, feconda, purifica, ma anche decompone.
L’acqua, come la cera, si lega fortemente all’esperienza del tatto, della sensibilità al calore e al freddo, all’idea di cancellare o sigillare, ed è portatrice di forti evocazioni simboliche. Penso alle grotte-ninfeo, dove nascono le sorgenti sotterranee sacre alle Ninfe, luoghi in cui l’acqua non è semplicemente un liquido dissetante, è essenza ctonia che proviene dal ventre della dea terra ed i luoghi in cui essa sgorga sono luoghi di confine e insieme di collegamento tra il mondo terreno e quello degli inferi. Il culto dei morti ha avuto origine nelle grotte che al contempo sono tombe, dove i morti riposano, e ventre gravido della madre da cui si nasce dopo nove mesi di gestazione immersi nell’acqua.
Penso che nel mio lavoro l’intento prevalente connesso all’utilizzo di tali sostanze organiche sia quello di far emergere la resilienza della materia, un tentativo di arrestare la cancellazione, attraverso l’emersione di dimensioni rarefatte, ma che allo stesso tempo rivivono attraverso l’organicità, il movimento, il calore nella cera e nell’acqua insiti ed evocati.

SpeakART: Le tue opere hanno un’evidente radice comune ma contemporaneamente differiscono molto a livello formale le une dalle altre, tanto da poterle suddividere in serie. In che rapporto stanno i vari risultati di una produzione così eterogenea?
Silvia Infranco: Penso che l’eterogeneità della mia produzione sia intrinseca alla natura della ricerca condotta nella quale la fase processuale che conduce alla realizzazione dell’opera riveste sicuramente un ruolo importante.
Mi interessa osservare come differenti superfici rispondano ad accadimenti esterni cui sono sottoposte. È l’eterogeneità di tali risposte che mi affascina e che determina differenti cicli di lavori.
Il processo di intervento sulla superficie avanza lentamente per reiterazione generando esiti di accumulo o sottrazione diversificati proprio sulla base della diversa natura di superficie.
La registrazione di un variegato e perpetuo divenire di forme mi parla di un sotteso e brulicante flusso energetico che scaturisce dalla materia nel momento in cui la stessa viene investita da accadimenti esterni dettati dall’incedere temporale.

 

Silvia Infranco, Ciò che resta, 2020, mix media (detail)
Credits: Silvia Longhi

 

SpeakART: Grazie al rapporto che intercorre con Marignana Arte, in questo momento alcune delle tue opere sono in mostra a Venezia: proprio negli spazi della galleria abbiamo potuto ammirare “Ciò che resta”, una delle tue ultime opere che può essere considerata come una sintesi del tuo essere artista. Ce ne puoi parlare?
Silvia Infranco: L’installazione proposta all’interno della mostra Oltrenatura negli spazi di Marignana Arte, curata da Davide Sarchioni, rappresenta una riflessione sul concetto di preservazione dell’organico attraverso l’organico.
L’installazione si apre e chiude con due frammenti di polaroid rappresentativi del processo che si ritrova all’interno di quasi tutte le singole teche, ovvero quello di inclusione in cera vergine di un corpo organico vegetale o animale.
Le teche contenitive non rispondono tanto all’esigenza di confezionamento del contenuto, ma piuttosto vogliono suggerire un tentativo di rafforzamento (artificiale) del processo preservativo, un tentativo che però vuole giocarsi sulla leggerezza e la sospensione.
Vedo queste teche come una sorta di grembo, scrigno protettivo, tante piccole camere osservazionali sul rallentamento o arresto del processo decompositivo.
Il richiamo evidente va inoltre alle vecchie scatole classificatorie dei musei di storia naturale, luoghi che trovo sempre estremamente affascinanti perchè li percepisco come delle wunderkammern al cui interno l’intento scientifico si mescola ad un aurea di atemporalità, sospensione e silente magia.
Nell’installazione sono inoltre inserite due teche che contengono strumenti umani di “misurazione” del tempo ovvero una clessidra ed uno specchio.
In entrambi i casi l’elemento vegetale (Gynostemma Penthaphyllum, conosciuta anche come pianta dell’immortalità) e i chicchi di cera vergine si oppongono all’abituale funzionalità dell’oggetto. Osservando la clessidra il tempo pare essersi fermato, mentre lo specchio, invaso dallo stesso contenuto, è in grado di restituire unicamente una visione parziale e particolare del volto ovvero l’occhio, il quale, come la cera, può considerarsi veicolo di restituzione di memorie che vuoi il corpo, vuoi la psiche imprimono sullo stesso.

SpeakART: La situazione che ci stiamo trovando a vivere ha avuto ripercussioni sul tuo lavoro? Quali sono i tuoi progetti futuri?
Silvia Infranco: Dal punto di vista pratico anche per me, come in generale penso per tutti, ci sono stati dei rallentamenti come incontri saltati, mostre slittate, fiere annullate. Tanti aspetti che purtroppo continuano a relazionarsi con uno stato di incertezza non certo facile in quanto persistente ed indefinito.
Un aspetto che magari in tutto ciò potrebbe rappresentare una nota positiva sarebbe l’essere maggiormente indotti a concentrarsi sulla propria ricerca, anche se personalmente mi accorgo di avere delle difficoltà a strutturare delle forme di isolamento artistico costruttivo in questo momento in cui la mente rappresenta un facile bersaglio per gli agenti più disparati.
Progetti futuri. Sicuramente, poichè è slittato al prossimo anno un progetto espositivo all’estero a cui tengo, vorrei approfittare di questa dilatazione temporale per approfondire meglio la ricerca sulla tradizione degli erbari figurati medievali che sarà appunto il cuore di questo progetto.