Se non è un fuoco non è arte: al GAD con Pier Paolo Scelsi

Sull’Isola della Giudecca (Venezia), proprio a ridosso dell’omonimo canale, si estende il GAD, il Giudecca Art District.

Il team di SpeakART ha avuto l’occasione di visitare gli spazi dedicati al distretto con due guide d’eccezione: il direttore, Pierpaolo Scelsi e la responsabile della comunicazione, Elisa Covre.

 

Pier Paolo Scelsi – direttore del GAD,  Elisa Covre – responsabile comunicazione GAD e Angelica Maritan, fondatrice di SpeakART

 

Da quell’incontro è poi nata l’intervista, che proponiamo di seguito, al direttore Scelsi. 

SpeakART: Il Gad nasce dalla volontà di ampliare l’esperienza di One Contemporary Art, ma il network che avete creato ha anche l’obiettivo di aiutare a valorizzare il territorio. A distanza di diversi anni dalla fondazione, quali sono stati i risultati? Come ha risposto la cittadinanza?

P.P.S : I primi passi del progetto GAD vedono la luce nel 2017 quando, dopo due anni di attività, l’associazione One Contemporary Art riconosce nella Giudecca lo spazio per un progetto a lungo termine e identifica in quest’isola la propria dimensione come “luogo di partenza”. Si arriva a GAD attraverso due anni di interventi e di stutturazione costante che vide nella mostra “Jack Jano, Law of Superposition” la prima scintilla, passando poi attraverso due anni di successivi interventi, fatti di una programmazione costante, e di un altrettanto costante posizionamento della nostra identità all’interno della vastissima e ricchissima proposta di arte contemporanea nella città di Venezia.
Il rapporto con la città per noi è importantissimo fin dalla nostra “core mission” come progetto GAD, che è quella di creare un dialogo tra l’elemento contemporaneo e l’identità artigianale degli spazi dove andiamo a intervenire, mettendo in essere un rete, un “distretto” di partner internazionali che veda in Venezia il proprio punto, luogo di incontro e di produzione e ricerca.
Nel 2019, con la spinta propulsiva di Biennale Arte, quasi fisiologicamente il progetto si amplia e trova la sua dimensione naturale, a maggio 2019 andiamo a proporre un vastissimo programma che alla fine del ciclo ha visto coinvolgere più di 60 artisti internazionali e 15 mostre coordinate e in molti casi curate da noi, dal nostro staff originale al quale si sono andati ad aggiungere preziosi nuovi elementi. Il 2020 è stato un anno particolare, di stasi e di congelamento della programmazione originale per molti attori del mondo della cultura e dell’arte contemporanea. Noi abbiamo cercato di trasformare questa emergenza in un’opportunità, e nello sconvolgere il nostro palinsesto originale, immaginato in continuità con la Biennale Architettura, ci siamo rivolti e ci siamo dedicati a tessere una rete di collaborazioni con le istituzioni del nostro territorio, della città di Venezia.
Con questa filosofia sono nate 222.Prospettiva Comune, mostra portata da GAD a Giugno 2020 che vedeva coinvolti tre vincitori del bando di atelier della Fondazione Bevilacqua la Masa, successivamente è stato per noi importante e piacevole ospitare in workshop Cecilia Jansson, all’interno del progetto “Superamenti” progetto co-organizzato dalla Peggy Guggenheim Collection e da Swatch Art Piece Hotel, come è stata per noi importantissima e doverosa la collaborazione cono l’Accademia di Belle Arti di Venezia, istituzione che abbiamo coinvolto, attraverso gli studenti di due atelier, in “Everybody’s got something to hide except me and my monkey”. Per noi la città che ci ospita non è certamente solo una “cornice”, la migliore che ci possa essere per chi vuole intraprendere un percorso nell’arte contemporanea, ma è anche una necessità, un’ interlocutrice continua, una dimensione fragile che diventa e si propone in maniera continuativa come fonte di spunti, suggerimenti, direzioni di ricerca.

 

 

Pier Paolo Scelsi, direttore del GAD – Courtesy of GAD

 

SpeakART: Il GAD ospita 60 artisti da 30 paesi diversi, sono dei numeri veramente impressionanti. Quali sono i segreti – se mai ce ne siano – per mantenere una tale rete di connessioni?

P.P.S : Crediamo che il segreto stia nella dinamicità, nel riuscire a raccontare e proporre quanto si fa, la nostra identità come una pagina in continua scrittura nella quale i nostri interlocutori possono portare il loro “testo”.
Noi lavoriamo selezionando gli interlocutori, andandoli a conoscere, cercando un punto in comune con loro che possa diventare quella “scintilla”, quel momento di partenza che sta alla base di qualunque proiezione a lungo termine del proprio lavoro.
Un altro segreto, inutile nasconderlo ma è il primo punto di forza, sta nel fatto che noi si sia forieri e si porti in dote la città che viviamo e sulla quale operiamo. Venezia è per tutti un punto di arrivo professionale, un “place to be”, città dove si può lavorare fianco a fianco con le più importanti istituzioni internazionali che nella nostra città hanno sede, e fianco a fianco con la più importante kermesse del panorama mondiale dell’arte contemporanea.
Noi cerchiamo di farlo in maniera proattiva e costruttiva, raccontando una parte della città che ancora vive e lavora, lontana dalla dimensione del mass-turism e della “cartolina”, ed è anche questo un elemento che porta ad avere un’attenzione che altrove sarebbe diversa.

SpeakART: La vostra è perciò una proposta culturale che spazia da artisti nazionali a internazionali. Qual è stato il feedback degli artisti nei confronti di una realtà come quella del GAD? Avete notato una qualche differenza di approccio da parte di italiani e no?

P.P.S: Abbiamo lavorato con grandi istituzioni, con gallerie Internazionali, con artisti che raccontavano esperienze diverse, medium differenti e approcci diversi.
Diciamo che personalmente non dividerei le differenze per provenienza, ma in abitudine alla collaborazione e abitudine e attitudine a lavorare su progetti esterni dallo spazio classico del museo o della galleria.
Essere da GAD non vuol dire essere dentro un contenitore, ma significa doversi gioco forza calare in un dimensione dove il tessuto culturale e sociale va intercettato e deve diventare parte integrante di ciascun progetto.
Quando ciò non avviene diventa un’occasione persa.

 

L’artista Alessio Bertolo al lavoro presso GAD – Courtesy of GAD

 

SpeakART: La Giudecca, intesa come luogo di cultura, è spesso messa in secondo piano rispetto al centro storico vero e proprio di Venezia. Voi lavorate anche per far sì che questo status quo cambi. L’arte, può essere la chiave di svolta in questo senso?

P.P.S: Per assurdo a mio parere ad oggi, e in quello che sarà il periodo post-covid si dovrà lavoare per recuperare il Centro Storico come spazio e luogo di produzione di cultura, magari mettendo a sistema Atenei, Istituzioni e Associazioni. La Giudecca ha una storia culturale molto importante che di certo non nasce con noi, tantissime sono e sono state le esperienze che in quest’Isola, direttrice naturale di un percorso che da Zitelle porta fino a Sacca Fisola, si sono aperte verso la città.
Ma è proprio il “Centro storico”, la direttrice Rialto-San Marco negli ultimi dieci\venti anni è profondamente cambiata, adattandosi, declinandosi e inchinandosi alla dimensione del turismo di massa “just to flag” di cui la città di Venezia è vittima.
Un turismo che sta espellendo i residenti, un turismo spesso disattento al fervore culturale di un luogo, interessato solo alla dimensione folkoristica, al “bignami” di quello che è vivere da viaggiatore a Venezia.
Una città il cui centro è di fatto desertificato dalla propria identità contemporanea per essere completamente assorbito dal “prodotto Venezia” da vendere in ogni modo e maniera è una città che rende “povere” anche le sue periferie che ad oggi sono spazi ferventi e attivi. Al netto delle grandi Istituzioni, Fondazioni e Musei che hanno le loro sedi nel Centro Storico, esistono “sacche di Resistenza culturale” in questa città, e a mio parere una di queste e la Giudecca e la sua pluralità di offerte di cui GAD è un pezzetto.

 

GAD, interno degli spazi Legno&Legno

 

SpeakART: Tra i vari progetti curati dal GAD, abbiamo visto esserci anche la parte di Artist in residence. Offrire agli artisti un luogo dove poter creare e riflettere in maniera libera e incondizionata è fondamentale. Com’è nato e come procede questo progetto?

P.P.S: Quello delle residenze d’arista è un progetto a cui teniamo molto e che come si può bene immaginare ha avuto una battuta d’arresto nel 2020-2021 per via dell’emergenza Covid 19 che ha reso impossibile viaggiare e ha reso difficilissime queste esperienze di interscambio.
Al momento stiamo lavorando per dare la luce a un progetto di triangolazione tra istituzioni tra Venezia, Buenos Aires e Varsavia per rendere strutturato e continuativa questa proposta dal 2022.
Siamo consci che un progetto del genere implichi una stesura capillare e dettagliata della proposta, gli artisti e i curatori giovano moltissimo da questi progetti quando sono ben organizzati e comportano una vera e propria immersione nel tessuto culturale e sociale di una città e siamo convinti che Venezia sia ancora uno spazio di suggestione e ricerca da poter offrire, lo era ai tempi del Grand Tour e lo può essere anche oggi.

SpeakART: Parliamo di digitalizzazione. Da realtà innovativa e giovane quale siete, qual è il vostro punto di vista sul rapporto arte/tecnologia: in che misura ritiene che quest’ultima, non intesa come semplice catalogazione delle opere d’arte, sia efficace nel mondo dell’arte?

P.P.S : Viviamo nella seconda decade degli anni duemila, questo periodo storico ci mette a disposizione strumenti di comunicazione, di ricerca e di produzione artistica in altri momenti sconosciuti, non solo nel campo delle arti ma in tutte le attività sociali e professionali. Noi operatori culturali, se non vogliamo vivere in una perenne e anacronistica “nostalgia” del passato, dobbiamo semplicemente capire come approcciarvici e come utilizzarle senza che esse diventino “un fine” ma che restino un “medium”.
Le “nuove tecnologie”, che per inciso spesso rimangono “nuove” giusto il tempo di catalogarle come tali perché nel frattempo tutto va muovendosi in avanti in un continuo processo di scoperta e sorpasso, sono indispensabili e utilissime non solo a chi, artista, decide utilizzarle come strumento della propria ricerca, ma anche nell’atto, che per chi si definisce “curatore” o “storico dell’arte” è dovuto, di “lasciare tracce”, di “creare racconti” passando attraverso una ricerca scientifica.
La catalogazione e la comunicazione, che da sempre noi abbiamo identificato nell’oggetto imprescindibile che è il “Catalogo”, non c’è dubbio che trovino strumenti agili, pillole facili da consultare e utili da diffondere anche in un altrove digitale rispetto alle pagine di un libro.
La catalogazione gioco forza ha già preso questa direzione da tempo, la divulgazione segue fisiologicamente gli stessi passi.

 

Entrata del GAD ( vista dall’interno ) – Courtesy of GAD

 

SpeakART: Il digitale nell’arte è stato fondamentale dall’inizio della pandemia per Covid-19. Come si è comportato il GAD? Che tipo di contenuti e/o piattaforme social avete preferito?

P.P.S: Su questo tema la mia personale opinione è abbastanza “estremistica” e in quanto tale la propongo e la metto a disposizione di critiche e dubbi.
Personalmente credo che il mondo dell’Arte Contemporanea, che negli ultimi vent’anni si racconta nella storia delle grandi mostre e dei grandi eventi, non possa prescindere dall’elemento e dal momento “sociale”.
La presenza, l’esperire, l’esserci, il muoversi e viaggiare è qualcosa di non sostituibile tramite i mezzi digitali dei quali abbiamo fatto ampia incetta in questo ultimo anno.
Esattamente come la scuola che, citando Massimo Cacciari “E’ socialità, non può essere rimpiazzata da un monitor o un tablet”, anche il mondo dell’arte a mio parere non esiste senza la dimensione sociale, senza l’interazione uomo-opera e uomo-uomo che è alla base del nostro lavoro.
I medium digitali sono fenomenali strumenti di conoscenza, di “first touch”, e di divulgazione e promozione, ma sono e devono rimanere questo. Nell’ultimo anno quasi tutti gli attori del mondo dell’arte hanno provato a trasferire la propria attività in questo spazio virtuale e la difficoltà e in alcuni casi l’inutilità del risultato non ha pagato gli sforzi incredibili fatti.
Fiere Virtuali, Mostre, Biennali digitali, e non dell’ ”arte digitale”, sono fiorite ma con mal nascosti risultati modesti che tutti noi conosciamo.
In questo “Trattenere il fiato” aspettando di ricominciare, come GAD abbiamo pensato di sfruttare i nostri canali social per creare da un lato una catalogazione del lavoro svolto: interviste agli artisti coinvolti nelle nostre mostre piuttosto che comunicazione del nostro progetto, e dall’atro di creare un climax, un percorso che porti verso gli eventi che ospiteremo nel 2021 da GAD.
In quest’ottica è nato il ciclo di talk, incontri, conferenze dal titolo “The Space we Live In” percorso di confronto attorno al tema dello spazio nel quale viviamo propedeutico all’installazione omonima dell’artista tedesco Markus Heinsdorff che ospiteremo alla Giudecca dal prossimo maggio. In Partnership con Coop Alleanza 3.0 e con il Consolato Generale della repubblica Federale di Germania abbiamo aperto i nostri canali social a 5 momenti di riflessione e di presentazione e nei primi due appuntamenti, anche avvalendoci delle nostre pagine social che ad oggi contano 14.500 contatti su Facebook e 2100 su Instagram, siamo riusciti a raggiungere una platea di più di 80.000 persone.
La nostra speranza è che poi, un piccola piccola parte di questi venga poi a conoscerci di persona, a vedere l’installazione di Markus, a visitare Giudecca e GAD.

SpeakART: La mostra che è in corso in questo momento negli spazi Legno&Legno, “Everybody’s got something to hide except me and my monkey” è in collaborazione con l’Accademia di belle arti di Venezia. Avete deciso di mettere in mostra degli studenti, tra i quali alcuni alla prima vera esperienza espositiva, dando loro un’occasione di emergere nel panorama artistico. Quanto è importante dare spazio ai giovani?

P.P.S: E’ indispensabile dare voce agli artisti, creare opportunità, squarciare il velo che spesso relega chi fa arte in un’eterna anticamera o sala d’aspetto.
Viviamo in un sistema dove spesso ci si ritrova sentire dare del “giovane” a quaranta e rotti anni. E’ questo è l’esempio lampante di come questo sistema abbia delle evidenti pecche, soprattutto alla luce del fatto che quel termine “giovane”, spessissimo nell’intenzione di chi lo utilizza, non significa “fresco”, “vivace”, ma sottende la terribile accezione di “acerbo”, “impreparato”.
E’ parte dell’identità di GAD il “creare” opportunità, sia rivolgendoci agli artisti, sia mettendo a disposizione la nostra struttura e la nostra esperienza a chi a GAD si avvicina vedendo nel suo futuro la professione del curatore o dell’operatore culturale.
Un nostro punto di forza, e per me è un punto di vanto, è il fatto che di 9 elementi che compongono questo gruppo, 5 si siano avvicinati a noi prima con un intership per poi affezionarsi e identificarsi a quanto stiamo facendo.
Quest’ultima mostra menzionata, ad esempio, vede come curatori me e Francesca Mavaracchio, che arriva a GAD proprio attraverso questo percorso di conoscenza e alla fine coinvolgimento.
E per me coinvolgimento significa anche fiducia e condivisione di responsabilità.

 

Elisa Covre e Pier Paolo Scelsi davanti all’opera di Giulia Gabellone “Heart of Glass”, una tra quelle esposte alla mostra “Everybody’s got something to hide except me and my monkey”

 

 

SpeakART: Restando sulla mostra, il titolo è anche quello di una canzone dei Beatles di un album del 1968. Quali sono i motivi dietro tale scelta?

P.P.S: Da un lato questo titolo assume nel medesimo concetto le due principali capacità dell’arte e delle arti visive: l’essere lo strumento più immediato forte, diretto per il racconto della realtà, e l’essere contestualmente anche l’unico mezzo dell’umano essere per trascendere la realtà e per proiettarsi nella dimensione del “fantastico”. La “scimmia”dei Beatles è inoltre la metafora di una dimensione psichedelica dove tutto diventa amplificato, dove si è completamente immersi, coinvolti e sconvolti da una passione. E immaginando una mostra con gli studenti dell’accademia non potevamo immaginare di non raccontare questo status, questa “fame”.
Ma anche per chi come me è un po’ più grande, il “patire”, questo vivere alla massima velocità, è qualcosa che porta ad essere “vivi” e ci spoglia di qualunque capacità di maschera, ci fa perdere ogni attitudine al nascondere e nascondersi.
Chi vive l’arte, a mio parere, non può che viverla così, come un amore, una passione, un fuoco.
Se “non è un fuoco” non è.
Se non si vive il mondo dell’arte con la “scimmia sulla spalla”, semplicemente stiamo facendo altro.