Carla Accardi: il segno che ha lasciato il segno

Quella di Carla Accardi è una delle storie di artiste donne che sono diventate fortemente protagoniste dell’arte quando continuava ancora ad essere un campo di competenza prettamente maschile.

Una passione per il disegno e per lo studio della storia dell’arte che l’ha accompagnata da sempre, e che da sempre non è stato (stranamente) ostacolato dalla famiglia: ma non è studiando all’Accademia di Belle Arti che trova la sua strada, quanto piuttosto con gli artisti contemporanei con cui formerà il gruppo Forma 1 (Consagra, Dorazio, Turcato).

 

Carla Accardi, Scomposizione, 1947
Courtesy Archivio Accardi Sanfilippo

 

È in questa atmosfera che esordisce con le sue prime opere, le Scomposizioni del 1947, forme geometriche scomposte che si incontrano e che rispondono a una necessità astratta diffusa tra tra molti degli artisti del gruppo, che proprio nello stesso anno firmeranno il manifesto: il colore, il disegno, le masse plastiche sono i loro mezzi di espressione; l’armonia delle pure forme il loro fine.

Ma quello che Carla Accardi continua poi è un percorso totalmente personale, frutto dell’ispirazione di maestri come Kandinskij, Klee, Mondrian che la portano a creare una poetica del segno.
Fin dagli anni ’50, il segno anima la superficie come un alfabeto legato soprattutto all’utilizzo del bianco e del nero, avvicinandosi fortemente alla sintassi compositiva dell’informale segnico tanto da attirare l’attenzione del teorico Michel Tapié – promotore del movimento.

 

Carla Accardi, Tenda, 1965-1966
Courtesy Archivio Accardi Sanfilippo

 

Negli anni Sessanta interviene il colore, per la sua capacità di suscitare stimoli, ad agire sui segni che ormai “vivono, sono delle presenze, delle persone, sono delle esistenze vere”. Cominciano a cambiare anche i supporti, che portano alla creazione di opere plastiche, ambientali (i Rotoli, le Tende – la Triplice Tenda viene esposta anche alla Biennale di Venezia del 1976, i Lenzuoli) attraverso l’utilizzo del sicofoil (materiale plastico trasparente). Il segno è sempre e comunque presente, ma il materiale scelto permette di compiere un ulteriore passo includendo nell’opera la luce e l’ambiente circostante.

Sarà poi negli anni ’80 che verrà recuperata la struttura pittorica nella sua forma più tradizionale, tramite un ritorno alle tele, ma il dialogo tra segno e superficie è ancora una volta il fil rouge della sua poetica: “così il segno è alle volte più libero, meno controllato, altre invece è più disegnato, più chiaramente delineato nella sua forma. D’altra parte la mia pittura non può arrestarsi su un problema, porlo e definirlo una volta per tutte. Mi piace ruotare attorno a questo problema, vederne le diverse, possibili soluzioni, essere coerente e, al tempo stesso, in grado di cambiare”.

 

Carla Accardi, Grande dittico, 1986
Courtesy Archivio Accardi Sanfilippo

 

La sperimentazione è insita nel percorso di Carla Accardi, tanto quanto la fedeltà a una ricerca sulla forma che la renderà forse la prima astrattista internazionalmente riconosciuta: sempre consapevole della differenza di giudizio a cui era soggetta in quanto donna artista, fino a immedesimarsi personalmente nella discussione sulle istanze femministe, è riuscita grazie ai rapporti creati con i colleghi, con i galleristi, con i teorici a farsi la sua strada autonomamente, imparando a far valere la sua arte prima del suo sesso.