La Natività di Paul Gauguin

Un’unica spinta accomuna i viaggi di Gauguin, quella di una ricerca di luoghi non contaminati dal progresso moderno in cui ritrovare un mondo primordiale vissuto in modo quasi selvaggio e primitivo dai suoi abitanti.

Tra le sue innumerevoli e successive peregrinazioni, si spinge da Pont-Aven in Bretagna fino a Panama e alla Martinica, per poi trovare in Polinesia Francese la sua meta definitiva.

Ed è proprio al suo secondo soggiorno a Tahiti che risale la realizzazione, nel 1986, di “Te tamari no atua”, titolo erroneamente riportato al plurale ma traducibile come “Nascita di Cristo figlio di Dio”. È infatti una natività il soggetto dell’opera, ennesimo rifermento religioso all’interno della sua produzione.

Paul Gauguin, “Te tamari no atua”, 1896, Neue Pinakothek
Courtesy of www.pinakothek.de

Ma in questi richiami non risiede una volontà di trasmettere il credo cristiano alle popolazioni indigene che lo circondavano, si tratta anzi di una sorta di sincretismo che unisce riferimenti dell’ambiente culturale polinesiano, contraddistinto da una spiritualità semplice.

In questo caso ci troviamo di fronte a una rappresentazione della Madonna con i tratti di una donna tahitiana, ma al contempo con la testa circondata da una aureola, come quella del figlio appena nato tenuto in braccio da una donna e quasi protetto da un figura che pare alata, a loro volta indigene, sullo sfondo una stalla con dei bovini che ancora possono apparire come un richiamo alle più classiche rappresentazioni del presepe.

La scena è sospesa tra il sacro e il quotidiano, i caratteri umani non hanno valenze allegoriche ma anzi sembrano ricondurre a un’idea della divinità che si trova in mezzo agli uomini, della sacralità che sta nella semplicità. Il tutto sembra immerso in un’atmosfera evanescente, come se ci trovassimo in uno spazio decontestualizzato e in un tempo interiore, remoto e profondo.

Sembra che l’ispirazione per la realizzazione del quadro nasca non tanto in riferimento alla religione in primis, ma da un fatto personale: in quell’anno infatti Pahura, attuale compagna tahitiana di Gauguin, dava alla luce un figlio che sarebbe poco dopo morto. Ed ecco che si spiega la somiglianza della donna che tiene in braccio il neonato con Tupapaù, idolo totemico locale e spirito dei morti.

“Credo che la mia arte, che voi ammirate tanto, non sia che un germoglio, e spero di poterla coltivare laggiù per me stesso allo stato primitivo e selvaggio”: queste parole aveva scritto Gauguin al pittore Odilon Redon poco prima del suo primo viaggio a Tahiti. È evidente come sia riuscito a trovare una sorta di suo personale paradiso terrestre, per giungere a “fissare il carattere e la luce della regione” in quest’opera come in tante altre risalenti ai periodi trascorsi in quei luoghi.